Sminuire il risultato coi più piccoli non sempre è la strada giusta. Vi sono dei valori, fondamentali nella vita di tutti i giorni, che possono essere trasmessi con saggezza solo dando il giusto senso a vittoria o sconfitta. Il ruolo dell’allenatore.
Come la notte e il giorno o l’estate e l’inverno, vincere e perdere fanno parte del gioco e della vita. Un percorso educativo serio insegna a giocare per la vittoria e ad accettare la sconfitta. Non sfugge né all’una né all’altra, non le esaspera o banalizza. Al contrario, ne coglie emozioni e spunti di crescita.
Sgombriamo subito il campo: la tendenza attuale a voler sminuire, camuffare o nascondere il risultato delle partite dei più piccoli non è una carta vincente da scegliere nella sfida educativa. Con una precisazione determinante: il risultato appartiene ai bambini. Quando gli adulti se ne appropriano e vi si identificano al punto da confondere il valore con l’esito degli incontri, ecco che iniziano i guai. La vittoria dell’educatore-allenatore è su un piano più alto: se la abbraccia correttamente, vincere o perdere diventano strumenti straordinari per allenare alla fatica, alla pazienza, al sacrificio, alla fiducia e a essere felici.
Il gioco è una cosa seria
Per i bambini, il gioco è una cosa seria. “Chi afferma il contrario è perché evidentemente non ha mai visto giocare un gruppo di bambini – afferma Pietro Trabucchi, psicologo dello sport e scrittore. L’agonismo è innato nella specie. È un dato di fatto, indipendentemente da ogni nostro desiderio buonista.” Il gioco è uno stimolo formidabile per la creatività, l’affermazione della personalità e la conoscenza di se stesso. Se non è contento della sua costruzione, il bambino la smonta e ricomincia da capo. Non gli basta far passare il tempo. Vuol fare le cose bene. Il risultato non è esterno al gioco. Fa parte di questo.
Don Alessio Albertini, fratello del Demetrio, campione del Milan e della Nazionale, spiega che “La vittoria va ricercata, perché infonde entusiasmo e gioia, ripaga i sacrifici e l’impegno dell’allenamento, rinforza l’autostima del singolo e del gruppo”. Un manifesto per lo sviluppo del talento in nome dell’agonismo più sfrenato? Non proprio. Don Albertini è responsabile per la Diocesi di Milano dello sport negli oratori. Aggiunge, fuor di retorica: “Nello sport l’importante non è partecipare, ma vincere. O perdere, purché si vinca o si perda bene”. Forse che il risultato stesso sia utile nell’educazione dei giovani?
Allenare alla vita
Anzitutto chiediamoci: cosa significa vincere o perdere “bene”? Significa vivere appieno quello che accade. Senza sconti. Significa dire no alle proposte troppo facili o edulcorate. Significa insegnare ai giovani ad andare oltre, a mettersi alla prova, a sfidare se stessi e le proprie capacità per raggiungere un traguardo. Ovviamente con senso delle proporzioni, cioè con modalità e mezzi adeguati alla fascia d’età. Ma un educatore deve essere esigente coi propri allievi: se non ci sono ostacoli, non faranno mai lo sforzo di “saltare”. Il messaggio educativo forte è che i premi nella vita si trovano al termine del viaggio, non agli inizi. La vittoria costa fatica. E questa parola, “fatica”, non può mancare nel vocabolario educativo.
Sottolineiamolo quando i nostri ragazzi ottengono un traguardo importante. Le cose belle si conquistano gradualmente grazie ai sacrifici e solo così si capisce quanto siano importanti i successi ottenuti. “Ci sono un sacco di belle cose in serbo per te al di là della stanchezza. Stancati, Andre – ripeteva il coach di Andre Agassi – è lì che conoscerai te stesso. Al di là della stanchezza.” Possiamo lavorarci, su questo. Se facciamo i complimenti a un bambino per quanto intensamente ha provato a raggiungere un risultato, inizierà a collegare il successo con l’impegno, la determinazione e la forza di volontà. I sogni richiedono fatica. C’è in gioco un processo di assunzione di responsabilità che si può e si deve intraprendere, con gradualità e buon senso, fin da piccoli.
Un bambino deve sapere cosa si prova a camminare verso la porta per andare a tirare un calcio di rigore. Deve vivere la gioia e il sollievo nel realizzarlo, così come il dispiacere nel farselo parare. Bisogna abituare i ragazzi a non aver paura della sconfitta e del fallimento. Non a evitarli, ma imparare a viverli, a scoprire quali emozioni sollevano in noi. E se un bambino perde una finale e piange, va bene! Significa che ci tiene, che è vivo. Come un maestro di arti marziali, gli spiegheremo che in questo gioco a volte si vince, altre si impara. E non importa quante volte si cade. Importa quante volte si cade e ci si rialza. Usare l’insuccesso per far meglio la volta successiva è ciò che ti rende forte.
Se la sconfitta è ingiusta, l’insegnamento è forse ancora più profondo. Si può aver dato il massimo, e, sì, può andare male lo stesso. Ci vuole tutta l’arte, la sensibilità e lo spessore umano dell’educatore per gestire questi momenti. Cosa dire? “Che hai fatto di tutto per vincere e devi uscire a testa alta. Ma ora accetta la sconfitta e l’amarezza: devi osare, devi rischiare di poter perdere se vuoi raggiungere qualcosa.” Dopo mezzora quel bambino starà di nuovo correndo dietro al pallone e dimenticherà in fretta il pianto a dirotto. Ma l’insegnamento rimarrà.