L’Apache! Questo il suo soprannome fin da piccolo. Una storia, quella di Carlitos, fatta anche di miseria, di degrado e povertà. E di una sorta di miracolo, accaduto quando aveva solo dieci mesi: si rovesciò addosso, accidentalmente, una pentola d’acqua bollente, ustioni di terzo grado… e una cicatrice vistosa sul collo. Ma che scorre sul suo corpo. Che, probabilmente, gli ricorda ogni giorno da dove è venuto. Ciudadela, Ejército de los Andes, non lontano da Buenos Aires. «Se non fosse stato per il calcio, avrei fatto la fine di tanti ragazzi del mio quartiere. Sarei morto, sarei finito in carcere o in mezzo a una strada, drogato» disse Carlos in un’intervista a una rivista argentina (La garganta poderosa). Ma lui ce l’ha fatta… perché «Toccato da una bacchetta magica», quella del talento. E non solo: lo sappiamo tutti, il talento non basta sempre. Serve altro: determinazione, cattiveria agonistica, spirito di sacrificio. Tutte qualità che, anche ora, contraddistinguono il bomber della Juventus.
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