FATICA E SACRIFICIO: l’intervista ad Antonio Conte

FATICA E SACRIFICIO: l’intervista ad Antonio Conte

Antonio Conte, allenatore della Nazionale italiana, illustra alcuni concetti fondamentali per la formazione del calciatore. L’importanza dell’allenamento ad alta intensità e del lavoro a “secco”.


Testa, cuore e gambe. Antonio Conte, allenatore della Nazionale italiana ha scelto questi termini per il titolo del suo libro. Tre parole, una dietro l’altra, che rappresentano il pensiero calcistico (e non solo) del tecnico. La testa viene al primo posto – ci dirà nel corso dell’intervista – perché l’interpretazione di quanto accade in campo per un calciatore, al di là della sua “irrazionalità” o fantasia, è fondamentale. Come il cuore, ovvero lo spirito di sacrificio, il piacere di giocare, la passione per lo sport che si ama. E le gambe, perché… l’alta intensità è determinante. Sempre. In partita e soprattutto in allenamento. «Non puoi pensare di correre un Gran Premio a 300 all’ora la domenica se in settimana vai solamente a 120…» chiosa il mister degli azzurri. Come dargli torto. Bisogna invertire una tendenza che, purtroppo, ci sta portando sempre più in basso. Un calcio, quello italiano, che probabilmente sta vivendo uno dei suoi momenti più bui. Un calcio in cui spesso ci si sente “arrivati” ancora prima di scorgere il traguardo. Dove la cultura del lavoro e il piacere di far fatica non esistono più. Questi pensieri sono solo l’inizio di una lunga “chiacchierata” con il mister di Lecce, che dopo i successi con la Juventus, prima da giocatore e poi da allenatore, ma anche le promozioni conquistate a Bari e Siena, sta provando a invertire la rotta della Nazionale.

A TUTTA “VELOCITÀ”
Bisogna tornare ad allenarsi a un certo ritmo e a una certa intensità, giusto mister? «Guarda, abbiamo organizzato diversi incontri con allenatori di Serie A e di B, oltre che coi tecnici e responsabili delle squadre Primavera e Allievi. È emerso che quando i ragazzi si affacciano in prima squadra non sono pronti. Al di là di un discorso tecnico-tattico, quello che è venuto alla luce è il gap “fisico”. Servono 6-7
mesi di lavoro coi grandi prima di trovare il ritmo giusto. E questo deve farci riflettere. Forse ci siamo dimenticati che il calciatore è anche un atleta.»

Non è che ultimamente, anche osservando quanto accade in Europa, abbiamo ricercato tutte le strategie per “agevolare” i calciatori?
«In un certo senso sì. Quando abbiamo visto che pagavamo in termini di risultati nei confronti dei top club europei, ci siamo messi a “scopiazzare”. Abbiamo osservato i modelli inglesi, spagnoli, tedeschi e abbiamo pensato che, copiandoli pari pari, avremmo raggiunto il successo. Ci siamo snaturati, abbiamo perso la nostra identità. Con questo, però, non voglio dire che è sbagliato studiare quanto accade nelle altre nazioni. Il buon allenatore deve essere bravo ad attingere dagli altri, però…».

Però?
«Il modello spagnolo è basato sul possesso e noi italiani possiamo applicarlo fino a un certo punto, non abbiamo la loro “cultura”. Quello inglese è incentrato sull’intensità, in partita e in allenamento e noi italiani non raggiungeremo quella anglosassone; lo stesso vale per la fisicità e la forza tedesca. Cosa voglio dire? Che dobbiamo essere bravi a prendere gli aspetti positivi di questi modelli (la gestione tecnica spagnola, l’intensità inglese, la forza tedesca, nda), mantenendo le nostre qualità, ovvero l’abnegazione, il desiderio di crescere, di trovare il meglio di noi nelle difficoltà. Parlo di uno spirito di sacrificio che è andato perso. Uno spirito di sacrificio che dobbiamo imparare a trasmettere ai calciatori fin da bambini. Non tutto è dovuto. Il “lavoro” è l’unico mezzo per migliorare: dobbiamo far passare questo concetto ai giovani giocatori. Inoltre…»

Prego mister…
«A livello di vivaio si utilizzano i modelli della prima squadra. Si costruiscono le settimane tipo principalmente in funzione della partita. No, non può essere così. Ogni giorno, ogni minuto dell’allenamento coi ragazzi, deve essere finalizzato al loro miglioramento, alla loro crescita. A diventare più bravi, dal punto di vista tecnico-tattico e anche fisico. Questo è il vero obiettivo. E per riuscirci bisogna allenarsi di più.»

Ad alta intensità?
«Certo, è l’unico modo. Dal “torello”, alle esercitazioni di conclusione a rete oppure a quelle più tattiche. Questa è l’unica soluzione. Se vai “forte” in settimana, hai più probabilità di farlo anche in gara.»

LIBERI DI DRIBBLARE
Facciamo un passo indietro, partiamo dalla base, dai calciatori più piccoli. Non pensa siano un po’ troppo “ingabbiati” dagli allenatori?
«I bambini piccoli, quando iniziano a giocare, cosa fanno per prima cosa? Prendono la palla e vogliono “scartare” chi hanno davanti per segnare. Nasciamo tutti così, la voglia di saltare l’uomo, di superare gli avversari è innata, inconscia. E non dobbiamo mai perderla. Purtroppo, a lungo andare, nelle Scuole Calcio si iniziano a “inquadrare” i giovani calciatori a livello tattico. In realtà, fino a una certa età, il divertimento e la libera interpretazione dei gesti tecnici, che sia un dribbling o un tiro, viene prima di tutto.» La parola “divertimento” viene spesso dimenticata… «Fino a 12-13 anni è necessario privilegiare l’aspetto ludico, il piacere di giocare. Ad esempio, vedere oggi gli Esordienti che si affrontano 11>11 su un campo enorme non mi piace. Come fanno a divertirsi se toccano la palla 2-3 volte in un tempo? Bisogna ridurre gli spazi, insistere sui gesti tecnici, sul dribbling: rispetto a tutti gli altri Paesi europei abbiamo meno elementi capaci di saltare l’uomo in 1>1. Dobbiamo ripartire da qui. Dai bambini che hanno il desiderio di emulare il gesto di un campione, di marcare per dimostrare di essere più bravi di n compagno o di volerlo battere in un 1>1. Il tutto cercando di avvicinare il modello dell’allenamento a quello della partita.»

Cioè?
«Si tratta di lavorare sulla tecnica in forma dinamica e non statica, riproducendo quanto accade in gara. Con la stessa intensità. Iniziando fin da piccoli. E usando la testa, che per quanto mi riguarda viene prima di tutto.»

LA PAROLA MAGICA: PASSIONE
Parliamo dei giocatori più grandi: quale indicazione vuole dare ai ragazzi per i comportamenti fuori dal campo?
«Il consiglio per i giovani, che poi bisogna far passare anche ai genitori, perché – non dimentichiamolo – sono loro i primi educatori, è che rispetto ed educazione vengono al primo posto. Sono due parole fondamentali e racchiudono tutto. Rispetto per i compagni, per gli allenatori, per gli avversari. Educazione sportiva a 360°, che vuol dire anche amare il proprio sport e dare il massimo.»

Veniamo agli allenatori: cosa vorrebbe dire loro?
«Che se vogliono essere efficaci devono saper trasmettere, sia alle giovani leve, sia agli adulti, passione ed entusiasmo. Devono essere coinvolgenti. Se non riesci, appunto, a coinvolgere il calciatore difficilmente potrai far passare le tue idee di gioco. Difficilmente riuscirai a conquistarlo e a trasmettere l’amore per il nostro sport. Difficilmente potrai migliorarlo. Migliorarlo in tutte le situazioni di allenamento, a ritmo gara,
senza perdite di tempo. Lo ribadisco ancora!» A questo proposito, ora – sia nei giovani sia negli adulti – molti tecnici lavorano quasi esclusivamente con la palla.

Cosa ne pensa?
«Prima di tutto, affinché l’allenamento sia efficace, bisogna allenarsi a un’intensità superiore all’80-85% della frequenza cardiaca massima. Ottenere questo valore con tutti i giocatori coinvolti proponendo mezzi solo con il pallone non è… semplice. In più questa intensità deve essere mantenuta per un certo minutaggio. Cosa ancora più complicata. Ti dico questo perché sono convinto che vi sia un po’ di confusione tra le esercitazioni tecnico-tattiche a carattere metabolico e quelle semplicemente tattiche: le prime, se ben proposte, sono utili anche da un punto di vista fisico, le seconde direi meno!»

E la parte a secco?
«Si può inserire nel piano settimanale di allenamento. Oltre agli effetti positivi dal punto di vista fisico, non dimentichiamo che stimola la capacità di sacrificio, la predisposizione al lavoro, la sopportazione dello stress. Sei tu che devi correre senza inseguire nessuno, una sfida con te stesso!»

UN CALCIO OFFENSIVO
Mister, all’inizio ha parlato di modelli “europei” da cui attingere parzialmente. C’è stato un modello per Antonio Conte?
«Uno in particolare no. Ho cercato di costruire, passo dopo passo, una mia personale idea di calcio, sicuramente offensiva. Che è iniziata ad Arezzo, quando sono stato richiamato a stagione in corso: ho provato a proporre un gioco d’attacco, basato sul 4-2-4, poi utilizzato anche a Bari, Siena e all’Atalanta. Però, servono un certo tipo di giocatori. Occorrono due punte schierate in “orizzontale” che conoscano dei movimenti codificati e due esterni alti abili nel superare l’avversario. Perché i vari sviluppi hanno l’obiettivo di far arrivare palla a tali giocatori…»

E se questi mancano…
«L’allenatore deve essere capace di cucire un abito su misura al proprio undici. È quello che è successo alla Juventus, dove dal 4-2-4 siamo passati al 4-3-3 e poi al 3-5-2. È indispensabile adattarsi alle caratteristiche dei calciatori.»

Una cosa cui non sarà facile adattarsi è il numero di calciatori italiani che giocano nei topteam. Abbiamo fatto una ricerca: nelle 7 squadre che disputano le “Coppe” solo il 29% è italiano.
«Allora bisogna rimboccarsi le maniche ed entrare nell’ottica delle idee che quello che abbiamo fatto fino ad ora non è corretto. Dobbiamo riflettere, dobbiamo tornare a costruire giocatori, riscoprire i vivai per arrestare questo declino.»

Senza nasconderci dietro l’assenza delle seconde squadre, che gli allenatori di Serie A preferiscono elementi già “pronti”…
«Sono tutte frasi fatte per mascherare un insuccesso. Certo, se mi chiedi se le seconde squadre possono essere utili, ti rispondo di sì. Ma il problema è più a fondo, non si risolve tutto con questa idea. I giovani forti, quelli di qualità, giocano. Punto e stop. Io ho esordito in Serie A a 16 anni e facevo tutti i “lavori” dei miei compagni più “anziani”. Buffon lo ha fatto a 17 anni, Pogba a 18, Ranocchia con me, all’Arezzo, ha preso il posto – sempre a 18 anni – al centro della difesa dell’allora capitano. Sono solo alcuni esempi. Perché è successo? Per le qualità dimostrate. Sapevano reggere l’urto con il calcio degli adulti. Per i giocatori forti la carta d’identità non conta mai.»

Visto il numero non elevato di giocatori italiani, getta uno sguardo attento anche in Serie B?
«Be’, per come sono fatto, guardo tutto ciò che è calcio, dalla partita di calcetto al beach soccer, senza dimenticare quello femminile. È la mia passione, penso si sia capito. Detto questo, il campionato di Serie B è importante per il nostro movimento e sono molto legato a questa lega, vi sono cresciuto come mister. E oggi, per fare un esempio, tre elementi che hanno lavorato bene in tale contesto, Florenzi, Immobile e Zaza, sono stati titolari in Nazionale. Certo, pensare che ora ci siano calciatori di B pronti per la maglia azzurra è fuori luogo. Però, se qualcuno mantiene quanto di buono sta mostrando e si conferma nella massima serie…»

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