Tutto su questo argomento di estrema attualità per chi si occupa di allenamento. Le varie tipologie di fatiche, da quella fisica a quella tecnico-tattica, passando per la “cognitiva” e alcune strategie per combatterla.
ll calcio è uno sport intermittente caratterizzato da fasi ad alta intensità distribuite su un lasso di tempo relativamente lungo (90’). La distanza totale percorsa da un giocatore nel corso di una partita è aumentata da 7.000-8.000 metri (anni Settanta – Reilly & Thomas, 1977) agli attuali 10.000-12.000 metri (+40% – Bradley et al., 2013). Della distanza totale circa 2.200-2.400 metri (22-24%) sono percorsi ad alta velocità (velocità di corsa maggiore di 15.0 km·h-1), 850-950 metri (8-9%) a velocità molto alta (velocità di corsa maggiore di 19.8 km·h-1) e 250-350 metri (2-3%) sprintando (velocità di corsa maggiore di 25.0 km·h-1 – Rampinini et al., 2007). La tipologia di esercizio che i calciatori effettuano è intermittente, infatti cambiano attività mediamente ogni 4-6’’ arrivando a effettuare, nel corso di una partita, circa 1.300 diversi tipi di attività, di cui circa 200 ad alta intensità (Mohr et al., 2003). Secondo uno studio effettuato su 56 partite del campionato italiano di Serie A, circa 550-600 metri (5-6%) sono percorsi con un’accelerazione superiore a 2 m·s-2 e altrettanti con una decelerazione inferiore a -2 m·s-2 (Osgnach et al., 2010) come indicato nella figura 1.
Da sottolineare il fatto che la maggior parte di queste distanze coperte in accelerazione o decelerazione prevedono una velocità di corsa iniziale e finale relativamente bassa (Varley & Aughey, 2013). Conseguentemente, il concetto di alta intensità risulta particolarmente articolato perché potrebbe essere determinato da una fase di gioco ad alta velocità, da una fase ad alta accelerazione o da una caratterizzata da una combinazione di questi due fattori (tendenzialmente meno frequente).
Come i militari?
Oltre alle richieste fisiche, non bisogna dimenticare che il calcio necessita di un impegno cognitivo elevato: secondo alcuni Autori questo è da considerarsi secondo solo alle attività militari che i soldati devono sostenere in battaglia (Walsh, 2014). In uno sport in cui la performance deve essere mantenuta per un periodo agonistico abbastanza lungo (per i professionisti 9-10 mesi), le possibilità che i giocatori vadano incontro a stati di fatica più o meno marcati o più o meno prolungati sono quindi abbastanza elevate.
Quale fatica
La grande complessità della nostra disciplina rende difficile l’individuazione di una sola tipologia di fatica che influenza la prestazione dei calciatori. Ad esempio, la fatica può essere classificata in base al momento in cui si manifesta oppure secondo il tempo che necessita il suo completo recupero. È stato suggerito che nel calcio esiste una fatica di tipo transitorio, ossia quella che si genera a seguito delle fasi più impegnative del match. È noto infatti che l’attività del calciatore non è costante nel corso dei 90’; al contrario, si alternano fasi più impegnative ad altre di relativo recupero, probabilmente dettate dalle dinamiche di gioco (figura 2). Inoltre, è anche possibile individuare una tipologia di fatica che si genera nella fase finale di un match, determinata da un progressivo deterioramento delle capacità prestative del giocatore. Infine, occorre ricordare che la fatica causata da una o più gare può diventare di tipo permanente, ovvero può persistere anche nelle ore o nei giorni successivi al termine dell’incontro (Mohr et al., 2005).
Per tutte queste tipologie è possibile studiare gli effetti negativi sulla prestazione fisica dei giocatori, ma anche sulle abilità tecniche e sulle funzioni cognitive. In più, esattamente come accade per gli studi che si occupano di fatica neuromuscolare in genere, è possibile classificarla in base alla sua origine, definendola come centrale, periferica o mentale, anche se quest’ultima non deve essere confusa con quella di tipo centrale, nonostante il coinvolgimento del sistema nervoso centrale che accomuna entrambe le tipologie. Numerose evidenze scientifiche hanno dimostrato che un incontro di calcio influisce negativamente sulla forza massima e sulla capacità di sprint dei giocatori e sono necessarie diverse ore per tornare ai livelli di normalità (Ascensao et al., 2008; Ispirlidis et al., 2008; Rampinini et al., 2011). Il tempo di recupero è variabile ed è probabilmente condizionato dalla fitness dei giocatori e dall’intensità della gara stessa. In generale sembra che la cinetica del recupero sia più veloce per i giocatori professionisti di più alto livello (circa 48 ore) rispetto a quelli di più basso livello (circa 72 ore).
La fatica causata da una partita è provocata da una combinazione di fattori di tipo centrale (principalmente a carico del sistema nervoso centrale) e periferico (principalmente a carico del muscolo), sia immediatamente dopo sia nel periodo di recupero che segue il match. Ecco che la riduzione di performance dei giocatori non è esclusivamente da attribuire a una diminuzione della funzionalità a livello muscolare periferico, ma anche a una minore capacità degli atleti di utilizzare in maniera ottimale il sistema muscolare. È anche possibile che l’elevato compito cognitivo indotto dalle partite o dagli allenamenti possa provocare stati di fatica mentale che hanno un potenziale effetto negativo sulla prestazione fisica dei calciatori. È stato infatti dimostrato che una condizione di fatica mentale indotta sperimentalmente, influenza negativamente la capacità di corsa intermittente (Smith et al., 2015), facendo diminuire le velocità di corsa liberamente scelte (a media e bassa intensità). Inoltre, la fatica mentale ha un impatto fortemente negativo anche sulla prestazione in un test standardizzato calcio-specifico come lo Yo-Yo Test (Smith et al., 2016).
Le esecuzioni tecniche
Fino a questo punto abbiamo cercato di descrivere il fenomeno della fatica nel calcio toccando gli effetti negativi essenzialmente sulla performance di tipo atletico. Tuttavia, non bisogna dimenticare che il calcio è uno sport di squadra in cui la prestazione è ovviamente influenzata dalle componenti di tipo tecnico-tattico. È stato riportato che, così come accade per distanze coperte a diverse intensità di corsa, nel corso delle partite si osserva una riduzione della quantità e della qualità degli elementi tecnici che i giocatori effettuano (Rampinini et al., 2009). Inoltre, è stato anche chiarito che l’abilità del passaggio corto o quella di tiro può essere negativamente influenzata dalla fatica (fisica o mentale) generata da un match, in particolare per quanto riguarda la prestazione dei giovani calciatori (Rampinini et al., 2008; Smith et al., 2016).
E gli infortuni?
Oltre alla diminuzione della performance fisica e tecnica, è possibile ipotizzare che la fatica possa avere un effetto anche sull’incremento di incidenza degli infortuni. Secondo uno studio che ha analizzato circa 6.000 infortuni verificatosi in due stagioni agonistiche in 75 club dei maggiori campionati professionistici inglesi (Hawkins et al., 2001), il numero più elevato di problematiche fisiche in allenamento si verifica nel mese di luglio, mentre in partita in quello di agosto (figura 3). Per entrambe queste “tempistiche”, si osserva una generale riduzione del corso dell’annata agonistica. Questi dati suggeriscono che, probabilmente, nei primi mesi della stagione i giocatori non sono adeguatamente preparati a sostenere le richieste derivanti dall’allenamento o dalla partita (verosimilmente tra i fattori fitness e fatica c’è una preponderanza del secondo). Successivamente l’equilibrio si sposta in senso positivo influendo sulla diminuzione di infortuni che si nota durante il training e in gara. Infine, se si analizza la distribuzione dell’incidenza degli infortuni all’interno delle singole partite appare evidente che il numero maggiore accada negli ultimi 15’ di gioco del primo tempo e negli ultimi 15-30’ della seconda frazione. Poiché è noto che i giocatori vanno progressivamente incontro a livelli di fatica sempre maggiori durante un incontro, appare plausibile ipotizzare un legame tra l’incremento dei livelli di fatica (fine primo tempo e parte finale) e l’aumento dell’incidenza degli infortuni negli stessi momenti del gioco. Chiaramente, nonostante queste osservazioni preliminari, ulteriori studi sperimentali dovrebbero confermare l’effettiva relazione tra i fattori fatica e gli infortuni nel calcio.
Attenti alle variazioni dei carichi
Recentemente Orchard et al. (2012) hanno proposto un modello teorico sulla possibile relazione esistente tra carico di allenamento (sia de-allenamento sia sovrallenamento), livello di fitness degli atleti, incidenza degli infortuni e livelli di performance in generale. Questi Autori hanno ipotizzato che sia livelli di carico inadeguati (troppo bassi) sia eccessivi (troppo alti) possono portare a una crescita dell’incidenza degli infortuni, a un livello di condizione atletica (fitness) non ideale e conseguentemente a prestazioni non ottimali. È molto probabile che non sono i livelli di carico assoluti di per sé che creano dei disequilibri negli atleti, ma sono quelli inappropriati rispetto alla situazione specifica dell’individuo in un particolare periodo che inducono nell’atleta un livello di fatica inaspettato. Un aumento troppo veloce e troppo marcato dei carichi è probabilmente uno dei fattori che contribuisce maggiormente all’incremento degli infortuni da sovraccarico. Dall’altro punto di vista, una crescita progressiva degli stessi consente di raggiungere livelli di training (anche molto impegnativi) e livelli di condizione atletica (molto buoni), che hanno conseguenze “protettive nei confronti di alcuni effetti collaterali” dell’attività sportiva (gli infortuni).
Il monitoraggio dei carichi costituisce dunque un elemento essenziale per attuare un corretto processo di allenamento degli atleti di qualunque ambito competitivo, monitoraggio che può basarsi sia sulla quantificazione del carico esterno (chilometri percorsi, chili sollevati nel corso di un allenamento in palestra o numero e intensità degli sprint o dei salti fatti) sia su quella del carico interno (frequenza cardiaca, percezione dello sforzo, RPE o altri questionari psicometrici – Impellizzeri et al., 2005). Tuttavia, è opportuno ricordare che l’individuata associazione tra un fattore di rischio e l’incidenza degli infortuni non restituisce valore predittivo dell’infortunio stesso al fattore di rischio individuato. In altre parole, la corretta gestione dei carichi contribuisce nel ridurre le probabilità di problematiche fisiche, ma la corretta gestione non può prevenire la totalità degli infortuni a cui, sfortunatamente, i giocatori incorrono.
Le strategie
Dopo aver definito il fenomeno, dal punto di vista pratico, sarebbe necessario cercare di individuare le strategie che consentono di prevenire o limitare l’insorgenza della fatica nei calciatori. Questo passaggio è probabilmente uno dei più difficili, perché – come ha detto uno dei più grandi scienziati della storia, Albert Einstein – “La teoria è quando si sa tutto e niente funziona, mentre la pratica è quando tutto funziona e nessuno sa il perché”. Essendo la fatica un fenomeno multifattoriale, la prevenzione della stessa deve prevedere interventi su più fronti coinvolgendo tutte le figure professionali che contribuiscono alla prestazione (tecnici, preparatori, medici o fisioterapisti). La corretta gestione dei carichi (“non troppo, ma neanche troppo poco”), un’adeguata strategia nutrizionale, un efficace utilizzo delle strategie di recupero alternative come l’immersione in acqua fredda o una corretta educazione al sonno sono tutti elementi fondamentali per agevolare il recupero degli atleti (Nedelec et al., 2013) e cercare di ottimizzare la performance dei calciatori nel corso dell’intera stagione agonistica.
Autore: Ermanno Rampinini.
Foto: Italyphotopress.