La motivazione spinge l’atleta a dare il meglio di sé: come stimolarla, cosa ricordare al giocatore e alcuni accorgimenti che lo possono aiutare.
Per giustificare tutta l’agonia che deriva dall’agonismo servono buoni motivi. Che si sia motivati è scontato, da che cosa… meno. Per individuare il format motivazionale che porta ad accettare una sfida sportiva, basta rispondere a poche semplici domande: Perché vuoi farlo? Che valore ha per te? Pro o contro che cosa lo fai? Ad esempio, si può “competere” per…
-lavoro (guadagnare soldi);
-gioco (svago, piacere, puro divertimento);
-espiazione (scontare una pena);
-potere;
-gusto di cambiare;
-imparare cose nuove;
-aiutare gli altri;
-una causa in cui si crede (impegnarsi per…).
Oppure contro:
-se stessi (senso del dovere);
-chi ci ha fatto un torto (vendetta);
-un nemico (ostilità);
-chi osa sfidare l’immagine mitizzata di noi stessi (lesa maestà).
L’ideale sarebbe la motivazione orientata al compito (sfido me stesso) piuttosto che quella orientata al risultato (sfido gli altri); quest’ultima caratterizzata dal sentirsi troppo sotto pressione e dalla tendenza a cercare avversari facili, perfino ad arrivare a barare col doping. In ogni caso gli obiettivi dello sportivo devono essere in armonia con le sue motivazioni. Ad esempio, il fine di vincere un certo match (per sfidare se stesso o gli altri) non è congruo con il voler ottenere in primis la stima dell’allenatore o dei familiari (cosa che può accadere nel settore giovanile). Paradossalmente, il coach (o il mental coach) deve essere più “demotivatore” che motivatore in tali casi.
L’insegnante tecnico (il mister per i calciatori, il maestro per gli atleti) allena all’agonismo solo gli allievi già intrinsecamente o estrinsecamente motivati; non è suo compito “istigarli” a competere e non lo è nemmeno per il mental coach. La moti- vazione intrinseca dipende da bisogni interni (autorealizza- zione, gusto per le sfide, curiosità…), quella estrinseca da bisogni esterni (premi, lodi, elogi…). Tuttavia, l’azione non è legata direttamente al valore, intrinseco o estrinseco che sia, ma all’emozione associata, ossia a quel sentimento intenso per/contro qualcosa/qualcuno chiamato comunemente pas- sione. Infatti, ciò che dà importanza al valore strumentale (ad esempio il denaro) è il cosiddetto valore finale (ad esempio, passione per le auto di lusso), che a sua volta deriva da un valore terminale, ossia da una visione del proprio essere ideale (ad esempio, essere ammirati socialmente).
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