Pensieri e spunti operativi su come operare nel settore giovanile. L’importanza di non “frammentare” il gioco ma di proporlo nella sua “complessità”.
Da anni si discute su come lavorare nei settori giovanili. Parecchi addetti ai lavori hanno la ricetta perfetta e molti sanno come è meglio formare i nostri giocatori. Da tempo partecipo a riunioni, corsi, convegni e ascolto con triste interesse relazioni di studiosi, tecnici e responsabili dei più importanti settori giovanili che indicano nuove metodologie, nuove strade, sempre più convinti che il loro modo di operare sia quello giusto, quello da copiare e da imitare. Colleziono un po’ masochisticamente decine di manuali che offrono numerosissime esercitazioni, insegnano come diventare bravissimi tecnici, che per una sorta di naturale difesa genetica dimentico dopo averli letti. Da tempo abbiamo copiato tutto da tutti e forse copiato male. Ora, eliminati dai Mondiali, ci chiediamo come possiamo cambiare. E, dopo una delusione calcistica, ci troviamo ancor di più alla ricerca di ulteriori ricette per far risorgere il nostro calcio. Con gli occhi naturalmente puntati sui vivai. Fioccano le proposte: creare centri federali, organizzare campionati di seconda divisione cui possano partecipare le seconde squadre di club della Serie A, seguire modelli organizzativi e tecnici simili a quelli di Olanda, Germania, Svizzera; senza tralasciare il fatto di aprire accademie per giovani talenti e aumentare i corsi di formazione per allenatori e dirigenti. Tutte idee che, a dire il vero, mescolate darebbero risultati sicuramente positivi. Peccato che non si metta al centro della discussione ciò che conta veramente: giocare a calcio.
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