L’allenamento dell’estremo difensore in un contesto integrato alla squadra e al suo modello di gioco. Alcune proposte pratiche.
Nei settori giovanili dilettantistici è frequente assistere ancora a una gestione della formazione e dell’allenamento “a sé stante” dei portieri. In alcuni casi, la separazione tra gli estremi difensori e gli altri componenti della squadra è dettata da fattori logistici e/o organizzativi, quali, per esempio, i diversi orari di disponibilità degli allenatori o degli spazi da utilizzare. Altre volte, invece, questo distacco è figlio dell’idea (vecchia quanto il calcio) che i portieri siano “una razza a parte”, “uomini soli” sui quali gravano meriti e colpe delle sorti della porta.
Allenatori, preparatori atletici e addetti ai lavori in genere, sottolineano la tradizionale differenza che intercorre tra il modello prestativo del numero uno (impegnato essenzialmente in sforzi brevi ed esplosivi e con a disposizione fasi di recupero molto più lunghe nelle quali occorre essenzialmente mantenere l’attenzione e la corretta posizione in campo) rispetto a quello dei suoi compagni “di movimento”. La prestazione di quest’ultimi infatti è caratterizzata dal continuo, ma non omogeneo, alternarsi di momenti di alta intensità con altri di recupero che interessano ogni aspetto metabolico, tecnico, tattico, caratteriale e relazionale della persona-giocatore. E non può sfuggire a questo discorso la specifica personalità richiesta al portiere e le sue doti di coraggio, concentrazione, autostima e non solo. Ecco che i portieri paiono dei soggetti autonomi da aggregare alla squadra solo quando sussistano ragioni particolari per non farli allenare per conto proprio.
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