Questo dovrebbe essere il sogno di tutti i tifosi italiani, non solo quelli della Juventus (che affronterà il Real) e della Roma (contrapposta al Barcellona): sarebbe un motivo di orgoglio avere due squadre nelle semifinali della Champions. Se è vero che portarne due ai quarti è già un successo per nostro calcio attuale (non succedeva dal 2007, 11 anni), sarebbe qualcosa di unico avere due semifinaliste: l’ultima volta è stata nella stagione 2002-03 con addirittura Milan, Inter e Juventus. Altri tempi! Tutto ciò però non deve farci illudere di aver risolto i problemi del calcio italiano grazie alle prestazioni di Juve e Roma, oltre a quelle della Lazio in Europa League. A tal proposito, a febbraio avevo risposto con piacere a una riflessione di un nostro lettore, Davide Ponzi, che sottolineava – tra le tante cose – l’importanza di un metodo condiviso per formare giovani giocatori. Per quanto mi riguarda, avevo invece posto l’accento sul numero di ore di movimento delle nuove generazioni che, purtroppo, paragonato al passato, ad altre discipline sportive e pure a realtà calcistiche straniere, non stimolano il miglioramento delle abilità motorie di base nei bambini / adolescenti di oggi. A queste considerazioni si aggiungono quelle giunte in redazione di un nostro storico collaboratore, Alessandro Zauli, che da più di trent’anni si occupa di settore giovanile. Vi proponiamo di seguito un sunto della sua “lettera”.
Ferretto Ferretto
…è pressoché impossibile stabilire se sia un progetto didattico ben costruito oppure uno scouting di altissima qualità a far sì che si formino giocatori e si ottengano risultati. Detto questo, a partire dall’Olanda del 1974 abbiamo sempre cercato di imitare e non di prendere spunto, ignorando spesso le nostre radici. Prima ancora di stabilire un metodo di lavoro sarebbe bene decidere da dove partire, cioè avere una scuola italiana ben definita: oscilliamo fra il “giocarla a tutti i costi” e il lavorare solo con la palla, al “calciarla lunga” e alle ripetute con gli Esordienti perché “forgiano il carattere”. Ci dimentichiamo però che in ogni nazione si gioca un certo tipo di calcio per motivi storici, climatici e anche politici: l’unica certezza, forse, è che non vi sono ricette valide dappertutto. Il nostro calcio si è sempre distinto per la grande attenzione alla fase difensiva, la creazione di difensori di livello assoluto, per un contropiede di qualità, oltre che per gli aspetti tattici, studiati nei dettagli. Purtroppo volendo “evolverci” abbiamo dimenticato la tattica individuale difensiva, per cui abbiamo giocatori “scadenti” in fondamentali quali la marcatura, il contrasto, l’1>1. E in fase offensiva abbiamo ragazzi imprigionati in sequenze di gioco, tracce offensive, che poi, a detta di molti, dovrebbero interpretare liberamente. Spesso senza avere le giuste conoscenze e la libertà di farlo. Essere aperti alle novità va benissimo, ma le mode vanno seguite (semmai) nel vestirsi; come dice il direttore è difficile razionalizzare il caos, ma almeno facciamolo diventare un po’ più calmo. Tornare al “cortile” è positivo, ma un “cortile” al passo coi tempi, quindi razionalizzato, dove il bambino sia protagonista e non spettatore degli apprendimenti. Insomma, conviene avere una linea autoctona, “contaminandola” con tutto quello di buono che viene da qualunque parte del mondo. In pratica, impariamo dagli altri, ma non dimentichiamoci delle nostre peculiarità: spesso siamo pronti a guardare l’erba del vicino senza accorgerci che un po’ di verde c’è anche da noi.
Alessandro Zauli