Quali sono i tuoi princìpi calcistici?
«Ti faccio una premessa: esistono livelli diversi, che vanno dal generale al particolare. Il primo concerne le strategie, mentre il secondo riguarda il singolo gesto. Sbaglia sia l’allenatore che agisce senza avere ben presente la strategia in quanto manca del livello generale, sia chi si pone nel modo opposto. Le due sfere devono coesistere. Questo è quello che ho sempre cercato di portare sul campo coi ragazzi, da quando ho incominciato a Brescia (De Paoli ha allenato tra gli altri Pirlo, Baronio, Diana, Guana… nda). Inoltre, esistono dei pre-requisiti ai tre fattori fondamentali, cioè coordinativo, motorio e tecnico-tattico, ossia: comunicazione, spazio, tempo e percezione. Senza dimenticare la match analysis, i carichi cognitivi ed emotivi. Ora penso siano importanti anche profili nuovi come il web trainer, l’emotional trainer, il tattical trainer.»
Ti manca il campo, inteso come gestione di un gruppo?
«No, per impostazione, sono abituato a staccare. Anche quando allenavo, finita la partita mi dedicavo ad altro, come il vedere una mostra. Credo che “restare sempre sul pezzo” alla lunga possa essere logorante. Mi capita spesso di andare in campo coi ragazzi, ma in modo diverso. Mi presento loro come una persona che porta dei giochi, in un tempo concordato con l’allenatore. Quello spazio serve per porre al mister delle domande su alcuni aspetti che reputo vadano migliorati. E non devono essere, per questo, un qualcosa da copiare, ma uno strumento che aiuti la riflessione; è come un piccolo seminario interno di aggiornamento per il tecnico.»
Quanto è cambiata la tecnica in questi anni?
«La differenza maggiore è che molto spesso non è più l’obiettivo principale. Quando parli di tecnica in Italia subito associano il problema alla querelle tra analitico e globale. E non c’è nulla di peggio. Il problema non è legato alla disquisizione in senso stretto, ma al saper fare bene un gesto. È vero che oggi la tecnica non può più essere allenata come trent’anni fa, poiché il contesto è mutato. Le esercitazioni devono tendere ad avere giocatori che in situazione sappiano svolgere bene il gesto specifico.»
Quindi?
«Sono indispensabili allenatori che non guardino solo se si fa bene l’elastico difensivo ad esempio, ma se, in quella situazione, il calciatore ha le posture giuste del corpo, se i piedi sono ben orientati. Manca l’occhio analitico su una situazione globale. Bisogna, inoltre, saper usare i tempi giusti di intervento, non basta fermare l’esercitazione e correggere l’errore, ma è necessario saperlo fare al momento giusto. E ancora, bisogna sempre tenere presente in quale realtà si opera, per capire il livello di partenza e tarare il lavoro nella direzione ottimale.»
È capitato, talvolta, che il tuo ruolo di docente sia andato in contrasto con quello di tecnico? O meglio, che qualche “detrattore” si facesse forza su questo?
«Quando agisco difficilmente penso a quello che possono pensare gli altri. Il mio focus è su quello che sto facendo e alle persone con cui lo condivido. In realtà, porsi questa domanda può portare a condizionarsi, perché rischi di toglierti quello spazio di libertà di cui parlavamo prima. È vero però che questo mio essere “doppio” ha portato, alcune volte, quando mi trovavo in ambito universitario, a essere visto in modo negativo per il mio fare calcio, mentre, al contrario, in ambito calcistico, il mio scrivere e porre delle riflessioni è stato visto come l’essere un teorico o naif.»
Hai sempre avuto a che fare coi genitori: cosa puoi consigliare?
«Che è fondamentale creare delle condizioni di interazione fra le diverse agenzie educative. Ai genitori ricordo la loro importanza nel processo di crescita dei più giovani, mentre con quest’ultimi tendo a sottolineare che il motivo per cui devono venire al campo è quello della passione e non il mito di “diventare qualcuno”.»
In conclusione, alcune considerazioni a ruota libera sulla distanza che vi è tra il nostro movimento calcistico e quello estero: «I bravi allenatori ci sono, le risorse anche, ma probabilmente non vengono utilizzate al meglio. Quella che deve cambiare è la “politica”, che deve unire il concetto di global a quello di local. Bisogna osservare cosa si fa fuori, ma poi calarsi nella propria realtà. Credo che sia necessaria una linea guida, che però si differenzi per le diverse realtà locali: si tratta di mantenere spazi di libertà all’interno di un sistema generale. Devi avere persone in grado di gestire relazione col territorio, le risorse economiche e le realtà politiche. La differenza è che prima facevi solo calcio, ora è necessario interagire anche con chi è esterno, ma è fondamentale in quanto tiene in vita l’intero movimento. Un altro aspetto da sottolineare è l’aggiornamento costante e continuo. Tutti i grandi allenatori – in Italia ne abbiamo molti che ci invidiano tutti – lo sono proprio perché hanno avuto l’umiltà di formarsi in quegli aspetti in cui avevano delle lacune.» Mister che andrebbero sfruttati anche dal punto di vista didattico: «È come avere i calciatori più forti e tenerli… seduti in panchina»
Autore: Andrea Gerardi.
Foto: Michele Tusino.
Articolo tratto dal numero di marzo 2018 (302): in edicola e disponibile anche attraverso abbonamento cartaceo o digitale.