Il maestro di calcio: Massimo De Paoli

Il maestro di calcio: Massimo De Paoli

Continuano le nostre interviste ai maestri di calcio. Questo mese abbiamo incontrato Massimo De Paoli, che da trent’anni lavora nel settore giovanile e ha delineato i cambiamenti avvenuti e spiegato le sue modalità operative.

Figlio d’arte (il papà Virginio ha giocato, tra le altre, con Brescia e Juventus, con la quale ha vinto uno scudetto), Massimo De Paoli, dopo l’esperienza come giocatore interrottasi all’età di 16 anni per motivi di salute, inizia subito come allenatore. Architetto di professione – docente in diverse università tra l’altro – ci ha raccontato come abbia abbinato e coniugato da sempre queste sue due passioni, e l’evoluzione degli aspetti tecnico-tattico e metodologici. Ha incominciato, come vedremo, al Brescia, dove ha allenato tutte le categorie fino alla Primavera, per poi passare all’Inter, seguendo i Giovanissimi e conquistando anche lo scudetto di categoria nel 2006, prima di tornare alla casa madre, dove lavora tutt’oggi.

Quando nasce il De Paoli allenatore?
«Nel momento in cui ho dovuto abbandonare il calcio giocato, al tempo delle giovanili del Brescia. Avevo tante aspettative, non lo nego, ero figlio di un calciatore famoso allora. A questo è seguìto un anno di distacco completo da questo mondo, finché alcuni ex calciatori amici di mio padre mi hanno coinvolto nuovamente chiedendomi di seguire alcune partite. Volevano farmi riavvicinare all’ambiente. E, tornato in campo, si è subito riaccesa la scintilla.»

Studiavi anche, giusto?
«Sì, al Politecnico di Milano e ho incominciato a coniugare la passione calcistica con gli studi di architettura. Questo binomio è continuato e ha caratterizzato tutta la mia vita. La mia formazione mi ha portato anche a scrivere molto di calcio: è stato come essere un cronista che descrive in tempo reale ciò che sta facendo. Col senno di poi, penso di essere sempre stato coerente tra ciò che svolgevo in campo e quello che riportavo su carta, tra l’altro proprio su questa rivista, oltre che alcuni libri. Penso che alcuni princìpi indicati 15 anni fa siano validi ancora oggi.»

Di quali princìpi parli?
«Mi riferisco in primo luogo a concetti generali, che non hanno a che vedere solo col calcio. Nel nostro sport non si può controllare tutto, ma tutto deve essere definito. Questo è un ossimoro molto importante per me. La via giusta è avere delle linee guida e poi lasciare che le cose avvengano liberamente. Le regole e l’imprevedibilità devono coesistere. In questo rapporto, la parola chiave è quella di “spazio di libertà”. Fin dall’inizio ho utilizzato questi concetti, ma in modo inconsapevole. Poi ho cercato di creare coi ragazzi delle interazioni particolari. Mi riferisco a elementi quali gruppi di lavoro, cooperative learning, learning by doing, oggi all’ordine del giorno, ma ieri…»

Hai parlato di libertà. Quanto è importante per i giocatori?
«È fondamentale. Ciò non significa fare tutto quello che si vuole, ma farlo nel rispetto di ciò che propone il contesto, sia di gioco sia ambientale. Bisogna cogliere, ad esempio, le culture dei luoghi e delle persone che ci circondano. La libertà passa attraverso un processo sensibile e di conoscenza, oltre che per il rispetto della natura. La mancanza di libertà nel nostro mondo significa mancanza di conoscenza. Ecco perché, quando ho smesso di allenare, ho chiesto di poter formare gli allenatori, in pratica di diventare “allenatore degli allenatori”. Oggi bisogna essere molto preparati dal punto di vista conoscitivo e culturale, sono necessarie un’elasticità e una formazione superiore al passato. Ma se non sei libero non puoi ottenere l’obiettivo.»

Vale a dire…
«Hai presente quando qualcuno ti chiede che cosa desideri? Io risponderei la libertà. E nel calcio deve essere lo stesso: i giocatori, ma anche gli allenatori, devono essere liberi di provare, di esprimere il meglio di loro stessi. Sempre all’interno di alcune linee guida. Li lascio sbagliare, pongo domande senza dare risposte, bisogna arrivare per gradi alle correzioni: infatti, a volte, se correggi immediatamente e sistematicamente, puoi creare dei problemi. Se, invece, lo fai in forma intermittente, cum grano salis, il processo di crescita è maggiore.»

Hai scritto anni fa un libro, “Spazio e tempo nelle situazioni di gioco”: parliamo di questi due concetti. «Derivano dagli studi di architettura. Ho avuto l’idea che questi due aspetti potessero indurre a comportamenti coordinativi, motori e tecnico-tattici. E ho provato a proporli anche nei miei scritti, cercando di introdurre alcune novità. Spazio e tempo ti permettono di gestire e creare condizioni in allenamento che non sono uguali alla partita, perché non si può ricostruire al 100% tutto. Ma grazie a loro puoi dare vita a setting all’interno del quale mettere training formativi per far sì che il giovane calciatore possa sviluppare al massimo la sua creatività.»

Cos’è cambiato nel calcio?
«Tutto e niente. Il calcio come sport è semplice e non è mutato nella sua sostanza: la passione con la quale i più piccoli frequentano i campi è sempre la stessa. Ciò che è diverso è il mondo esterno. Ad esempio, le persone di 50-60 anni che vi operano devono imparare a confrontarsi con le nuove tecnologie, accettando che le nuove generazioni, su alcuni aspetti, abbiano competenze maggiori. E i ragazzi d’oggi sono sicuramente diversi dal passato. Infatti, si è incrinata la vecchia gerarchia docente-discente: il “tu fai ciò che dico io” non funziona più.»

E per quanto riguarda le nuove generazioni di allenatori?
«Devono essere consapevoli di avere dimestichezza con la tecnologia, con certi linguaggi, ma che occorre una certa esperienza per combinare il tutto. Nella realtà in cui viviamo non si può più prescindere da internet, ad esempio, ma bisogna “governarlo”. Può essere un ottimo strumento per cercare qualche contenuto, ma serve la giusta distanza. Distanza che sembra essersi appiattita anche tra le piccole realtà e i professionisti. Oggi è possibile vedere video sugli allenamenti di qualsiasi squadra, ma poi non si può avere la superbia di riproporre il tutto sul proprio campo di periferia, senza tenere conto delle differenze che vi sono. Così si pensa solo al proprio ego, si vuole essere “come qualcuno”, “moderni”, ma in realtà si fanno danni.»

Sei stato diversi anni all’Inter, che esperienza è stata?
«Associo questo periodo alla città di Milano, conosciuta prima attraverso gli studi e poi grazie alla possibilità di far parte di un club fra i più famosi al mondo. È stata molto importante perché mi ha fatto capire come si lavora in una grandissima società. La struttura di un top club è diversa dalle altre e, soprattutto a livello strategico, ho avuto la possibilità di comprendere l’organizzazione di un club di tale livello. Vedere come agiscono le varie figure e le loro relazioni è stato un patrimonio che ora cerco di declinare nelle realtà in cui sono. Ovviamente tenendo conto delle diverse condizioni, ma è una base di spunto da cui trarre degli insegnamenti.»

E per quanto concerne il campo?
«All’Inter ho seguito quattro annate, dai 1990 ai 1993. Ho avuto la fortuna di allenare calciatori che giocano nei massimi campionati come Obi, Caldirola, Santon, Destro, Crisetig…. Non sono il tipo di allenatore che si prende il merito, credo di essere stato fortunato. La società, nelle persone di Samaden, Ausilio e Baresi, mi ha messo a disposizione calciatori di primissimo livello. Il settore giovanile mi ha dato la possibilità di avere il meglio, sia per quanto riguarda i calciatori sia per le condizioni di lavoro. Ho avuto anche la fortuna di reincontrare alcuni di quei ragazzi, che mi salutano con affetto. Da questa cosa deduco che il rapporto che si era creato era ottimo. Posso vantarmi del fatto che non abbiano smesso (ride, nda).»

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