Il maestro di calcio: Stefano Bonaccorso

Il maestro di calcio: Stefano Bonaccorso

Hai parlato dei professionisti che supportano l’allenatore: avete queste figure nel vostro staff dell’attività di base?
«Sì, abbiamo diversi specialisti all’interno della nostra società. Proponiamo vari incontri di aggiornamento con il responsabile del settore giovanile, i preparatori atletici e la psicopedagogista, Lucia Castelli. In questo modo, gli incontri diventano un’occasione di supporto e crescita per i mister. In particolar modo, non è comune trovare all’interno dello staff una psicopedagogista: Lucia è una risorsa importante che cerchiamo di sfruttare con costanza. Va considerato che fare della formazione interna è un concetto semplice da esporre, ma difficile da sviluppare: quella dell’aggiornarsi è una cultura da creare.»

Hai constatato differenze tra il movimento italiano e quello europeo?
«Su questo aspetto ci sono dei “miti” da sfatare. Infatti, tutti pensano di guardare all’estero per migliorarsi, perché si ritiene siano più avanti di noi. Al contrario, reputo che gli allenatori italiani abbiano molto da dare dal punto di vista didattico. Se invece parliamo di differenze, sicuramente ve ne sono. Ma queste non provengono dall’abilità dei tecnici, ma da altri fattori. In primo luogo, a livello europeo l’intensità è superiore e questo si evince molto dalle partite che sono svolte tutte “a mille all’ora”. Allo stesso modo è maggiore la qualità/velocità della trasmissione della palla, il modo in cui viene calciata e come “viaggia”. E soprattutto i giovani sono più liberi di interpretare il ruolo.»

Quest’ultimo è uno snodo cruciale, vero?
«Assolutamente. Qualcosa in questa direzione sta cambiando anche da noi, ma ordine e organizzazione della squadra rimangono ancora troppo primari: un calcio ordinato e organizzato è un must del calcio italiano. All’estero, in linea di massima, a livello individuale sono più liberi. Ad esempio, non sono preoccupati di difendere in superiorità numerica, cosa che da noi anche nei vivai sembra un elemento imprescindibile. Lavorando in parità numerica difensiva cresci giocatori che sanno anticipare, marcare e coprire allo stesso momento. Comunque, indipendentemente da tutto, bisogna vedere le prospettive di ogni calciatore, senza snaturarlo. Ho una certezza: un bravo mister deve fare un’analisi dei giocatori a disposizione, fissare gli obiettivi e agire in funzione di questo. È fondamentale in fase formativa prestare attenzione alla maturazione individuale dei singoli elementi della rosa.»

L’Atalanta ha una grande tradizione coi giovani, che spesso esordiscono in prima squadra. È un motivo di orgoglio per tutti?
«Quando una società arriva a fare ciò che sta facendo la squadra di Gasperini significa che c’è un’organizzazione che funziona a 360 gradi. La famiglia Percassi è arrivata nel 2010 e in questi anni ha dimostrato di sapere fare calcio. Si tratta di una proprietà bergamasca, che vive il territorio e la città. Sia il presidente Antonio sia il figlio Luca sono ex giocatori del settore giovanile e sono grati a quest’esperienza.»

Poi ci sono gli investimenti…
«Che non sono pochi. Parlo della riqualificazione del centro di Zingonia, palazzina del settore giovanile e nuovi campi per i giovani compresi. Senza dimenticare l’acquisto dello stadio. Inoltre, hanno scelto le persone giuste, a partire dal direttore generale a quello sportivo, arrivando all’allenatore Gian Piero Gasperini, che non ha avuto timone nel far esordire i giovani. Questo è determinante perché si dà continuità a questi ragazzi, che arrivano da piccoli e percorrono tutta la trafila delle giovanili. Pensiamo a Caldara, Gagliardini e Conti, entrati nel mondo nerazzurro a 6-7 anni. Quello che fa la differenza in questi casi sono coraggio e pazienza, senza i quali si rischia di bruciare molti ragazzi validi.»

Per chiudere, Stefano Bonaccorso si è soffermato sul grande senso di appartenenza che si respira nella società bergamasca, in forte controtendenza con la globalizzazione nella quale viviamo: «Molti dei nostri ragazzi sono bergamaschi e atalantini, con un forte senso di identità. Un esempio su tutti è quello di Cristian Raimondi, bergamasco doc, che da giovane non è stato confermato in Primavera. Però è riuscito a tornare alla base a più di 30 anni e ha considerato questo rientro il coronamento di un sogno. Per il calcio italiano, crescere altri giocatori con lo stesso senso di appartenenza ci permetterebbe di incontrare meno difficoltà. Siamo passati dall’avere tre stranieri ad avere solo stranieri: è necessario fare scelte di buon senso, elemento che nella vita paga sempre.»

Autore: Andrea Gerardi.
Foto: Michele Tusino.

Articolo tratto dal numero di febbraio 2018 (301): in edicola e disponibile anche attraverso abbonamento cartaceo o digitale.

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