Il responsabile tecnico dei centri territoriali voluti dalla Federazione racconta la nascita di questo progetto, i presupposti operativi e la filosofia che sottende a tutto l’intervento degli allenatori.
13 novembre 2017, Italia – Svezia, spareggio di ritorno al Giuseppe Meazza di Milano per la partecipazione al Mondiale di Russia. Il risultato lo ricordiamo sicuramente tutti. Un pareggio che ci esclude dalla manifestazione calcistica più importante al mondo per la seconda volta nella nostra storia. E da quel giorno tutti gli addetti ai lavori si sono messi alla ricerca di chissà quali soluzioni per invertire le tendenze negative del nostro calcio. Un progetto era già in cantiere, pensato due anni prima, ma portato “in campo” proprio dopo la sconfitta degli azzurri. Era quello dei CFT, ovvero i centri federali. Ma di cosa si tratta? Quali sono gli obiettivi? Perché sono nati? Abbiamo posto queste e altre domande a Maurizio Marchesini, responsabile tecnico del progetto.
Maurizio, sei stato coinvolto come responsabile in un momento successivo alla nascita dell’idea dei CFT. Cosa puoi dirci in proposito?
«Nel 2015 Maurizio Viscidi fece notare come le nostre nazionali giovanili riuscivano sì a competere con i pari età europei per quanto concerne l’organizzazione collettiva di squadra, però eravamo inferiori a livello individuale. Inoltre, difficilmente eravamo in grado di dominare il gioco. Successivamente, Antonio Conte, allora mister della Nazionale, portò alla luce la situazione con un’intervista alla Gazzetta, facendo notare che nelle rose delle squadre di Serie A solo il 41% dei calciatori erano italiani, percentuale che scendeva al 38 se si consideravano i titolari. Inoltre…»
Continua pure…
«Di quegli anni è una ricerca del CIES sui 5 principali campionati europei: italiano, francese, tedesco, spagnolo e inglese, nella quale veniva evidenziato come il 78% dei giocatori professionisti all’età di 12 anni giocavano nei dilettanti, nei cosiddetti amateur. Questo significava due cose: la prima che a 12 anni non sempre il talento si manifesta; la seconda che non serve fare un progetto simile a quello dei professionisti perché i migliori prospetti, soprattutto quelli tardivi, rischiano di rimanere esclusi ugualmente. Ecco perché era indispensabile lavorare coi dilettanti, con tutti i dilettanti. In particolar modo coi tecnici che si confrontano quotidianamente con questa realtà. Infatti, il progetto dei centri federali ha essenzialmente questo obiettivo: fare “formazione”, ag- giornamento con tali allenatori. Per arrivare ai giocatori. E sono nati in questi anni i primi 50 centri.»
Detto dell’idea che ha dato il là ai CFT, come nasce il tuo incarico?
«Sono stato convocato nel febbraio del 2016 e mi è stata proposta la direzione tecnica dei centri. La mia risposta? “Quando dobbiamo cominciare?”. Non ci ho pensato un attimo, era un progetto molto interessante, in cui mi sono buttato immediatamente. Ho iniziato visitando, grazie alla federazione, i migliori settori giovanili all’estero per vedere come si lavorava: sono stato al Benfica, al Barcellona, in Inghilterra all’Arsenal, al Watford, al Wolverhampton, poi all’Anderlecht, all’Hoffenheim e anche in Francia al centro di Clairefontaine.»
L’obiettivo?
«Non giudicare o dire quanto sono bravi, ma vedere ciò che funzionava e capire se potesse essere riproducibile anche in Italia. Ho preparato una relazione, ne abbiamo discusso con la commissione tecnica nazionale e abbiamo deciso su quali punti insistere. Non su tutti perché quello che adesso, nel 2019, sta funzionando potrebbe non essere efficace per i gio- catori del 2030. Perché è questo il nostro fine: trovare la giusta metodologia per i giovani di oggi, con quelli dai 14 anni in giù, che saranno i professionisti domani. E non è facile, la sfera di cristallo non ce l’ha nessuno.»
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